Last night I dreamt that somebody loved me

October 1, 2007 at 9:03 am 6 comments

Cerchiamo di capire chi sono io, negli anni ‘80.

Negli anni ’80 sono la figlia primogenita di un’infermiera diplomata che si è pagata gli studi lavorando in una filanda svizzera, e di un impiegato di posta calabrese trasferito al nord a diciotto anni. Ho una sorella di quattro anni e mezzo più giovane, la cui presenza è quasi ininfluente ai fini del mio sviluppo: se si eccettua il fatto che fino da ragazzine siamo state confrontate una con l’altra, per decidere quale delle due fosse la più intelligente (io), la più furba (lei), la più carina (lei), la più simpatica (lei), la più “difficile” (io), la più fantasiosa (io), la più pacifica (lei). In retrospettiva, quasi tutte queste diagnosi si sono rivelate almeno parzialmente errate. Ma è meglio lasciare mia sorella fuori da questa storia, che dopotutto non la riguarda. Lei ha fatto e fa una vita che con la mia non c’entra nulla, e i suoi anni ’80 sono anni di pace e allegria.

La cosa che mi definisce, inequivocabilmente, è che a due anni e mezzo sapevo distinguere le lettere, e a quattro leggevo fluidamente ad alta voce. C’era in me qualcosa di straordinariamente sensibile agli influssi esterni; qualcosa di estremamente malleabile, impressionabile, e fragile allo stesso tempo. Nelle foto da neonata ho occhi di cent’anni, eppure sono stata una bambina molto più a lungo delle altre.
Nessuno riesce a capire cosa mi passi per la testa, perché parlo poco e tendo ad isolarmi. Leggo: è la mia strategia di sopravvivenza. Non ho avuto un’infanzia felice. Sono stata amata poco e male, abbandonata a me stessa, spesso presa in giro per il mio aspetto fisico, per nulla considerata quando si trattava di fare scelte che mi coinvolgevano.
Sono curiosa, attiva, ho un’immaginazione sconfinata che plasma mondi interi dal nulla.
Sono anche timida, riservata, delicata. Mi ambiento a fatica, dicono i miei, preoccupati: e grazie tante, dico io a venti e passa anni di distanza. Un bambino non è un camaleonte, non assume automaticamente i colori del suo sfondo. Ogni trasferimento è uno strappo doloroso: al secondo, al terzo, non ci si ambienta più. Ci si mantiene a mezza distanza da tutto e tutti, una mano tesa pronta a ritrarsi al primo rifiuto. Soprattutto, si dà per scontato che si finirà per perdere tutto e tutti, e quindi si finisce per abbandonare tutto e tutti prima che possano abbandonarti. E si continua a farlo per tutta la vita.

A undici anni e mezzo, nella mia vita non c’è mai stato niente di solido a cui aggrapparmi. I miei genitori mi hanno affidata ai miei nonni perché potessi essere sorvegliata e andare a scuola. Erano giovani e poveri, lavoravano a tempo pieno e non potevano permettersi una babysitter: i nonni sembravano una buona soluzione. Da loro, nel paese di montagna pieno di aria e di luce, sarei cresciuta sana. Avrei frequentato una scuola elementare a tempo pieno, modernissima, costruita dalla Croce Rossa austriaca per i bambini terremotati: una classe per ogni anno, una maestra per ogni classe, un immenso cortile circondato dai boschi, un servizio di scuolabus preciso e affidabile che recapitava ogni bambino nel comune o frazione di residenza. Ma io volevo la mamma. Volevo stare con lei. Non sopportavo di vedere l’auto dei miei genitori sparire oltre la curva, ogni volta che se ne andavano. Piangevo. Mi veniva detto di non farlo: avrei ferito la mamma.
Nessuno si preoccupava di quanto questo potesse ferire me. Del resto ero sempre stata difficile: anche all’asilo piangevo, non volevo fare il sonnellino, non avevo sonno, volevo giocare. Prima ancora, non mangiavo. E prima ancora, non dormivo. Più che una bambina, ero un problema da risolvere. Mio padre ancora me lo dice: “Sei sempre stata una gran rottura di palle.”

San Giovanni di Casarsa è il luogo dove i miei genitori hanno comprato una casa. Il senso di permanenza comincia a farsi strada: e per quanto io continui a frequentare le medie a Pordenone invece che a Casarsa con tutti i miei potenziali nuovi amici (i miei genitori non sono mai stati bravi a calcolare gli effetti di un trasferimento), si comincia a capire che da qui non ci sposteremo più. Devo imparare a sopravvivere.
Il problema è che non sono equipaggiata a dovere. Una nuova ragazza in un paese piccolo suscita curiosità se è carina, attira scherno se è brutta. Io sono disperatamente, tragicamente, irrimediabilmente brutta. Un collage di denti storti, capelli impettinabili, occhiali giganteschi e spessi, braccia e gambe scheletriche, angoli dove le altre stavano sviluppando le prime, timide curve. Mia madre e mio padre, entrambi belli, mi guardano perplessi. Non si capisce quale legge di Mendel del cazzo sia riuscita a raccattare tutti i loro difetti e a concentrarli in una persona sola. Sembro fatta con gli scarti di tutto il parentado, una specie di creatura di Frankenstein femmina che nelle foto ha sempre l’aria vagamente ritardata.

L’intelligenza, a dodici anni, non serve a niente.

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Acceptable in the Eighties F-f-f-f-fashion! (part one)

6 Comments Add your own

  • 1. » Numero due  |  October 1, 2007 at 9:08 am

    […] La seconda puntata di Acceptable in the Eighties è qui. […]

    Reply
  • 2. tostoini  |  October 1, 2007 at 11:04 am

    L’intelligenza, a dodici anni, non serve a niente, anzi é un ottimo modo per arrivare alla marginalità sociale senza passare dal via e per convincerti sino all’età della ragione che si, sei tu il problema.
    In effetti rimane un mistero come faccia la specie umana a sopravvivere dopo l’istituzione delle scuole medie.

    Reply
  • 3. Gomez  |  October 1, 2007 at 1:53 pm

    “L’intelligenza, a dodici anni, non serve a niente.”
    Dio, quanto è vero.

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  • 4. ilgrandevuoto  |  October 1, 2007 at 5:02 pm

    Che palle.
    Brutti si nasce.
    Noiosi si diventa.

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  • 5. F-f-f-f-fashion! (part one) « Ualbois! Ualbois! Ualbois!  |  October 2, 2007 at 11:02 am

    […] Prologo Last night I dreamt that somebody loved me […]

    Reply
  • 6. miic  |  October 2, 2007 at 12:24 pm

    >rimane un mistero come faccia la specie umana a sopravvivere dopo l’istituzione delle scuole medie

    comèvvero, comèvvero!

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