I don’t like Mondays (part two)

Train of thought

Dall’altra parte dei diciotto chilometri di linea ferroviaria c’è la vita del paese. Tra il paese e la scuola c’è il gruppo della stazione, un agglomerato di persone dalle alleanze mutevoli. Abbiamo tutti una sola cosa in comune: per tornare a casa dobbiamo percorrere il tragitto fra la scuola e il binario 1 in non più di sette minuti. Altrimenti ci scappa il treno, e dobbiamo aspettare quello dopo. Con quello che ne consegue in termini di fame, rimbrotti e perdita di sostanziose porzioni di Deejay Television e Saranno Famosi.
Non ricordo se ho preso il treno ogni giorno per tutti i cinque anni di scuola. Credo di no, ma ho comunque iniziato molto presto. Era meglio che viaggiare con mio padre, che di mattina era spesso di cattivo umore.
La mia sveglia suonava ogni giorno alle sei e un quarto, ragione per cui non mi era permesso guardare Quelli della notte e Indietro tutta. La radio era sintonizzata su una stazione locale, che trasmetteva sempre lo stesso nastrone di musica a rotazione, sempre alla stessa ora. Per anni sono stata svegliata da The Only One I Know degli Charlatans. A seguire c’era Just a Gigolo nella versione di David Lee Roth. In generale, dopo spegnevo la radio e scendevo a fare colazione.
Le mattine prima di andare a scuola sono state il mio primo vero contatto con l’ansia che mi porto dietro da tutta la vita. Temevo la scuola. Temevo i professori, le interrogazioni, i compiti, le umiliazioni quotidiane. Temevo di dimenticare qualcosa di fondamentale ed essere sgridata davanti a tutti. Temevo tutto. E ogni mattina, quando mi svegliavo all’alba per affrontare la giornata, era con lo stomaco chiuso.
Il viaggio in treno fra Casarsa e Pordenone, però, mi piaceva. La mattina potevo viaggiare con Alberto, che era il mio migliore amico, e Ciro, che era il mio amore neanche tanto segreto, mai corrisposto e fonte di infinite sofferenze. Quasi tutti i miei amici del paese e del gruppo scout studiavano a Pordenone come me, e ci incontravamo ogni mattina al binario 2.
Delle mattine in treno, per ovvi motivi, ricordo più facilmente i giorni freddi. A Casarsa e Pordenone il freddo invernale è pungente, umidissimo. Prima che mi rubino la bicicletta, a volte pedalo fino alla stazione. Sono solo due chilometri e mezzo, quasi tutti in piano, a parte il cavalcavia alla fine: la pedalata mi scalda. Non ho ancora fatto il collegamento fra la mia estrema magrezza e il dispendio energetico di quelle mattine, a casa mia non si parla mai di peso o di alimentazione corretta. Mangiamo tutti come bufali, e solo papà ingrassa.
Al rientro, Ciro a volte viaggia con me, altre volte con Sabrina, nostra compaesana che frequenta la scuola per segretarie d’azienda. Io cambio compagnia di anno in anno. Ricordo un periodo di viaggi particolarmente allegri con un gruppo di sanvitesi, un po’ più giovani di me ma molto simpatici. Non ricordo tutti i nomi, ma ricordo che stavo bene: fuori dalla stazione ci frequentavamo di rado, ma quella mezz’ora passata insieme ogni giorno era piena di scherzi e risate. Erano già gli ultimi anni, stavo emergendo. Dagli ’80 e da me stessa.

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October 12, 2007 at 1:02 pm 8 comments

I don’t like Mondays

Naturalmente, niente di quanto sopra ha senso al di fuori del contesto sociale in cui avviene. Lo scenario della mia adolescenza è frammentato e scisso, ma si svolge grossomodo quasi tutto fra San Giovanni di Casarsa (PN) e il Centro Studi di Pordenone.

Se c’è una cosa per cui la gente si ricorda gli anni ’80 è questa idea dei soldi come cardine esplicito dell’interazione sociale. La facoltà di Economia dell’Università Bocconi è di moda, e non solo per il (piuttosto misero) sketch di Sergio Vastano a Drive In. Gli Young Urban Professionals, Yuppies, sono una figura così popolare che Luca Barbarossa ci fa sopra una canzone, i Vanzina un film, e i ragazzi della ricca provincia nordestina tanti e tanti sogni.
Pordenone è il non-luogo per eccellenza. Né Friuli né Veneto, pochi italiani sotto il Po saprebbero trovarla su una cartina. Mal collegata al resto del territorio, non presenta comunque grandi motivi di interesse turistico. Si è sviluppata rapidamente durante il boom economico e industriale, ha accolto immigrati meridionali, americani e ora africani rimanendo nella sostanza sempre uguale, provinciale, marginale, scarsa di eccitazione e movimento. Nei primi anni ’80 ha visto fiorire un movimento punk di spessore, ma io non li ho mai visti, questi del Great Complotto.
Neanche questo posso raccontare.
Con gli anni ’80 si inaugura il Grande Vuoto Emotivo. Non mio, nello specifico – un’adolescente è sempre piena di emozioni, che le piaccia o meno – ma quello di un’intera generazione, bombardata da un decennio di proteste, lotte, referendum, stragi, bombe, pallottole, botte e canzoni di Sting sui russi che amano i loro bambini. No, vabbè: quella era dopo.
Ci volevamo divertire, tutto il mondo occidentale si voleva divertire. Potevamo finire bruschettati da un ordigno nucleare da un momento all’altro, o almeno, così abbiamo creduto per molto tempo. Tanto valeva cercare di fare un sacco di soldi, ascoltare musica futile e facile, guardare video dei Duran Duran, scrivere pessimi romanzetti di vita paninara in cui Simon Le Bon era utilizzato come trucco di marketing.

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October 9, 2007 at 2:17 pm 6 comments

F-f-f-f-fashion! (part two)

In the closet
Dicevo dei vestiti fatti in casa da mia madre. Non che io sia completamente da assolvere. Da ragazzina avevo un gusto piuttosto stravagante per i vestiti: mi piacevano molto i colori accesi, che indossavo tutti insieme senza curarmi molto degli abbinamenti. Mio padre non voleva che mi forassi le orecchie: una volta convinto, non voleva che portassi orecchini a pendente. Riteneva fossero troppo vistosi. Ma questo va alla voce “Sesso”, che vi assicuro, è parecchio interessante se siete il tipo di persona a cui piace leggere l’elenco del telefono o guardare la vernice che si asciuga.
Comunque: avendo completamente bypassato lo stile postatomico (in casa mia, vivaddio, nessuno aveva il permesso di vestirsi come le Bananarama), a un certo punto scopro il fluorescente. Non so chi abbia avuto l’idea che fosse bello andare in giro vestiti come operai dell’Anas, ma non fa niente. Quello che conta è che possedevo:

  • 1 paio di calzini giallo fluo
  • 1 paio di calzini rosa fluo
  • 1 paio di calzini verde fluo
  • 2 paia di elastici di spugna per ogni tonalità incluso l’arancione, che usavo come polsini dato che avevo i capelli corti
  • 1 paio di finte Superga rosa fluo
  • 1 paio di pantaloni di cotone a fiori gialli, verdi e rosa.

I pantaloni in questione erano gli unici ad abbinarsi con i calzini e le scarpe. Non so perché mio padre facesse tutte queste storie per gli orecchini e non si accorgesse che ero vestita come un semaforo.

Il verde – a parte quello fluo, ma in fondo anche quello – è la mia grande idiosincrasia. Non l’ho mai voluto indossare. Forse per questo nella mia famiglia si faceva a gara nel comprarmi abiti e accessori in ogni sfumatura di verde: possiedo ancora un montgomery e un fedora di quella sfumatura, ma anche il mio armadio ne è pieno.
Non mi sono mai stati molto a sentire, credo di averlo già detto.

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October 5, 2007 at 1:44 pm 7 comments

smemo(rabiblia), 1

a milano, di fronte a casa mia c’era un negozio che si chiamava stramilano.
da stramilano vendevano soprattutto abbigliamento per la danza (stramilano:porselli=la pasta dell’esselunga:de cecco), ma anche vestiti e della gadgettistica che lévati…
un giorno del 1984 sono entrata lì con mia madre e siamo uscite con una minigonna azzurra (che a 10 metri da un accendino spento prendeva fuoco) e un paio di fusò in lycra lurex azzurri.
quando ho dato il mio primo bacio li indossavo, in coordinato con un paio di all star basse gialle e un ciuffo tenuto su con un’intera bomboletta di lacca.

October 4, 2007 at 3:04 pm 3 comments

F-f-f-f-fashion! (part one)

Levami gli occhiali, pettinami come Cristo comanda, mettimi un po’ di trucco e un’espressione appropriatamente malmostosa in faccia, e io a dodici-tredici anni potrei quasi sfilare. Vabbè, non ho ancora le tette e la mia statura non è quella definitiva, ma sono una taglia-nulla montata su due gambe infinite. Ho le ossa sottili e le spalle larghe. Nel 1984, però, le magrissime non sono di moda: la figura femminile dominante è la Fast Food. Questa antesignana della Velina, seni generosi esposti come merce sulla bancarella di un reggiseno imbottito, microgonna a balze, trucco vistoso e calze contenitive invisibili, si accompagna alle Ragazze Cin-Cin nelle fantasie degli ometti d’Italia. Le curve – anche quelle un po’ abbondanti e debordanti – sono in; l’aspetto emaciato da prigioniero del lager è decisamente out. Così sia: c’è gente che si lascia morire di fame pur di raggiungere la forma fisica che io, a dodici anni, considero con disperazione nello specchio.
Nel mio piccolo paese, in cui la chiesa è l’edificio più grande e il cuore del centro abitato, la tendenza è a dare meno nell’occhio possibile. L’adesione a qualsiasi moda, corrente, cultura o controcultura è considerato segno di grave insubordinazione. I genitori si torcono le mani, spiano i diari, temono che i figli prendano la ddddroga. Non si capisce bene da dove potesse arrivare, questa dddddroga, dal momento che siamo guardati a vista ogni minuto: se non siamo a scuola, siamo agli scout. Se non siamo agli scout, siamo a casa. Se non siamo a casa, basta fare mezza telefonata: siamo sempre a casa di qualcun altro. Ma sto correndo avanti.
Devo tornare al 1984, dove comincia tutto.

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October 2, 2007 at 10:05 am 12 comments

Last night I dreamt that somebody loved me

Cerchiamo di capire chi sono io, negli anni ‘80.

Negli anni ’80 sono la figlia primogenita di un’infermiera diplomata che si è pagata gli studi lavorando in una filanda svizzera, e di un impiegato di posta calabrese trasferito al nord a diciotto anni. Ho una sorella di quattro anni e mezzo più giovane, la cui presenza è quasi ininfluente ai fini del mio sviluppo: se si eccettua il fatto che fino da ragazzine siamo state confrontate una con l’altra, per decidere quale delle due fosse la più intelligente (io), la più furba (lei), la più carina (lei), la più simpatica (lei), la più “difficile” (io), la più fantasiosa (io), la più pacifica (lei). In retrospettiva, quasi tutte queste diagnosi si sono rivelate almeno parzialmente errate. Ma è meglio lasciare mia sorella fuori da questa storia, che dopotutto non la riguarda. Lei ha fatto e fa una vita che con la mia non c’entra nulla, e i suoi anni ’80 sono anni di pace e allegria. (more…)

October 1, 2007 at 9:03 am 6 comments

Acceptable in the Eighties

Prologo

La polvere si alza sulla strada non ancora asfaltata che parte dal bivio davanti alle Case Rosse. “Case Rosse” è un eufemismo per “case popolari”, e anche questo piccolo complesso ospita la sua quota di bulletti di quartiere. Io sto tornando a casa. Forse sono andata a prendere un gelato. Forse stavo solo girando per il paese, tanto per non restare chiusa dentro. Più probabile la prima: non mi piace molto uscire. Per l’ennesima volta nella mia vita, devo esplorare un mondo completamente nuovo, e pazienza se si tratta di una frazione di paese che conta sì e no tremila anime.
Ho undici anni e mezzo. Peso quaranta chili per un metro e settanta. Adesso mi metterebbero in passerella. In quel momento, sono solo uno spaventapasseri sulla bici.
Quando arrivo vicino alle Case Rosse, mi alzo dalla sella e premo sui pedali.
Non c’è un motivo preciso per cui lo faccio. I miei coetanei che giocano nel cortile mi terrorizzano e mi attirano allo stesso modo. Sono il nuovo territorio che devo conquistare, o almeno, io penso che lo siano. Non sembrano esserci altre forme di vita preadolescenti nel raggio di svariati chilometri, e i figli dei nuovi vicini sono tutti troppo piccoli.
Insomma, quando passo davanti al cortile in cui giocano i miei potenziali nuovi amici, mi alzo sui pedali della mia bici da uomo come un Gimondi in salita. Lo faccio ogni giorno, ogni volta che passo di là.
Non ci vogliono molti giorni prima che se ne accorgano, e comincino a prendermi in giro. Prima sottovoce, poi in faccia, urlandomi frasi in dialetto dalla loro parte del muro. Tiro dritto, bruciando. Volevo solo giocare con loro. Ma non so come si faccia a chiedere.

Tanto per capirci, gli anni ’80 per me iniziano nel 1984, anno in cui i miei genitori finalmente riescono a comprare una casa e vi si trasferiscono, portandosi dietro me e mia sorella. Una villetta a schiera in fondo ad una strada dove non c’era quasi nessuno, in un luogo così isolato che l’asfalto è stato l’ultima cosa ad arrivare.
Prima di allora, la mia vita è avvolta dalll’effetto flou degli anni ’70, dell’infanzia dai miei nonni prima e a Pordenone poi. Amici, luoghi, scuole, classi, maestre, estati e inverni si succedono senza soluzione di continuità.

Nel 1984 cambia tutto. (more…)

September 27, 2007 at 3:06 pm 16 comments

Staremo mica tornando?

[…click…]

(Pare di sì. Con calma e per piacere, però.)

September 18, 2007 at 10:31 am Leave a comment

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